Nella mostra personale a Ca’ Pesaro, Thomas Berra agisce in maniera delicata, frammentata, quasi analitica. L’artista crea un percorso puntellato di tracce realizzate attraverso l’utilizzo di diversi supporti in cui la pittura interagisce liberamente: disegni in bianco e nero su carta; installazioni in dialogo con opere storiche presenti nel museo; un grande tondo; lastre scultoree fatte in gesso o in vetro soffiato.
Ogni opera racconta un episodio: piccole narrazioni che, assorbite e guardate insieme, rappresentano un contesto intimo, ma che può essere universalizzato. Ogni lavoro è una traduzione di una visione o di un’esperienza che Berra restituisce trovando soluzioni estetiche e creando una traccia equilibrata e fluida. L’ordine narrativo si bilancia tra pensiero, sogno, segno pittorico e bellezza. Il verde della natura diventa un rifugio per l’osservatore: un giardino dipinto necessario per l’anima. Berra ha così “fatto giardino”, per riprendere ironicamente le parole di Andrea Pinketts che, attraverso questa combinazione di termini, in un suo romanzo ha voluto sovvertire un sistema di regole ricreandone di proprie. Come il pittore che qui, per rimettere in ordine un caos fatto di ostacoli e difetti quotidiani, alleggerisce le narrazioni del reale attraverso una rigenerazione basata sul paesaggio, attraverso un cammino tracciato.
“Una volta mollata l’anima, tutto segue con assoluta certezza, anche nel pieno del caos”. Thomas Berra da diversi anni indaga il verde sotto le sue più diverse sfaccettature. Partendo dalle teorie sulle vagabonde di Gilles Clément – scoperto in tempi in cui ancora il paesaggista francese non era noto al grande pubblico italiano -, passando per gli studi di pittori che si sono occupati di natura come pretesto per la sperimentazione dei segni, o leggendo saggi e racconti, come lo scritto dello svizzero Robert Walser, l’artista ha esplorato il verde e le sue possibilità giungendo a una sintesi che riporta nel museo veneziano, alternando alcune visioni con quelle di maestri come Rodin o Gino De Dominicis.
Accanto al Pensatore, ad esempio, Berra pone in dialogo un grade tondo blu e azzurro da cui sbuca romanticamente una figura umana che indica una piccola casa nascosta tra le frasche. Dalla punta del dito del soggetto dipinto prende vita un raggio giallo. Una luce? Un laser che taglia la tela circolare, andando verso l’esterno. Non è a quella casa sulla collina, a lato di due montagne che si incontrano, che il fruitore deve rivolgere lo sguardo. Bisogna proseguire oltre. Forse verso quella piccola parte dove si scorge il cielo, che è blu e chiude la narrazione dell’opera verso l’alto. Obbliga ad alzare il punto di osservazione e a vedere le stelle.
È difficile trovare un cielo così stellato. Sopra alla tela di De Dominicis Berra ha, invece, posizionato un delicato leone in vetro di Murano: questo semplice gesto è un chiaro tributo alla città lagunare, al suo passato glorioso e agli aspetti raffinati della sua artigianalità. Il leoncino di Venezia esula dal quel fare pittura che il visitatore sta seguendo, è una simbolica traccia che segnala una pausa in questa passeggiata. Un momento di riflessione che riporta al passato. L’artista infatti non riesce a prescindere da storie pregresse: la scelta stessa, decisa con la direttrice Elisabetta Barisoni, di dialogare con alcune opere presenti nella collezione permanente del museo, è un segnale tangibile.
In un altro piano Thomas crea una parete in cui grandi disegni su carta, realizzati in bianco e nero, riportano narrazioni più chiare. Sono episodi immaginati, vissuti, sognati, idealizzati, estremizzati, che vengono captati anche se osservati ed estrapolati singolarmente, non solo in un unicum. L’elemento
naturale gioca sempre da protagonista. É un habitat imprescindibile. Salvifico, come già sottolineato.
L’uomo, nei racconti visionari di Berra, non perde “il suo posto originario, la sua dimora, il suo habitat”, come asserisce Agamben analizzando Il giardino delle delizie di Bosch. In queste opere le abitazioni esistono, ma sono sempre un po’ distanti dalle figure di passaggio nei dipinti, anche se raggiungibili da strade e viottoli delineati.
“Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui, ora” (2004) si legge su una storica opera di Alberto Garutti. La passeggiata vagabonda di Walser per Berra è dunque un tracciato di vita dove gli elementi naturali sono i soggetti principali. Essi creano un ambiente ameno, dall’apparenza leggera, calma, sognante e legittimano il giusto contesto per micro narrazioni dove dei personaggi agiscono in solitaria o in dialogo. All’interno di questo immaginario ci sono simboli ricorrenti: raggi di luce, semplici stelle, angoli tagliati, montagne che si sovrastano, palme, piccole foglie che si ripetono, nasi allungati, mani che indicano, piedi che giungono a destinazione. Questi micro episodi si mettono a nudo pian piano, in un sistema complesso, molto personale. Pensando al titolo, che l’artista ha scelto per restituire una chiave di lettura che poi, opera per opera, può essere interpretata a seconda dell’occhio che osserva e della mente che elabora, è facile focalizzarsi sul percorso. Ma non è una chiave di lettura necessaria. Berra vuole riconciliarsi con la realtà attraverso la pittura confrontandosi con un unico soggetto: quello
naturale. Le figure umane sono un pretesto alla narrazione. Sono di passaggio. Foglie, erbacce, fiori recisi, arbusti, alberi, piccoli rami, petali leggeri, morbide caverne e curve, qui tracciati come frammenti racchiusi da un titolo che riprende una frase di un racconto di Sergio Bianchi dove narra di una casa nel bosco. La poetica di Thomas richiama quell’ “etica del viandante” predicata da Galimberti: “a differenza del viaggiatore, il viandante non ha meta”. Anche i due personaggi incisi sul gesso nero sembrano placidamente chiacchierare tra loro senza fretta, forse, appunto, senza meta. In questa scultura Thomas rappresenta ancora una casa sopra le loro teste. Di nuovo un luogo da raggiungere.
Ma senza urgenza. Ciò che conta è il cammino. Come viene affrontato, da dove si parte, che strada si staglierà davanti e quale verrà lasciata al passaggio. Si troverà un’oasi deliziosa? La quiete dopo il diluvio? Sicuramente, dopo aver affrontato queste forme ed esperienze tracciate dall’artista, si troverà qualcosa di buono.
“Nessuno di noi ha conosciuto quella potenza cieca e dirompente che ha dominato prima e che ha modellato i profili dell’orizzonte che ho davanti, nell’eterno tramonto, e questa, forse, è la prima cosa
buona.” scrive Annika Pettin.

di Rossella Farinotti

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