Giovedì 13 giugno il MUSMA presenta That I Could Fear a Door: storie di case e di vento, la prima personale in Italia dell’artista hazara Elyas Alavi, curata dal collettivo Exo Art Lab e da Simona Spinella.

Il titolo “That I Could Fear a Door” è un verso estratto dalla poesia di Emily Dickinson I Years had been from Home. Una “risata di legno” – scrive la poetessa – è l’unico suono che può riecheggiare in un petto reso cavo dagli anni lontano da casa. Quando la propria casa diventa estranea, quando ci si sente in essa come – aggiunge Emily – “ladri” che devono celarsi e muoversi “con dita di vetro”, si diviene irrimediabilmente un po’ stranieri anche a se stessi. Prendendo in prestito il verso della Dickinson, gli spazi di Palazzo Pomarici si aprono quindi a un’intima riflessione sui concetti di casa, appartenenza e sradicamento, in una connessione che accomuna spiritualmente l’esperienza dell’artista alla storia di Matera.

Elyas Alavi, afghano hazara attualmente attivo in Australia, è un artista multidisciplinare che pone al centro della propria ricerca le complesse relazioni tra individuo e società, in rapporto a tematiche come l’appartenenza etnica e culturale, la religione, l’orientamento sessuale, la diaspora e il significato della parola “casa”. Attraverso neon, video e poesia, Elyas utilizza il proprio vissuto come punto di partenza per indagare gli effetti di un allontanamento forzato dal proprio paese e dai propri affetti, osservando lo spaesamento di fronte a una terra che si fa inospitale per chi è costretto all’esilio.

Matera si offre dunque come casa ideale per questa mostra, divenendo parte dell’istallazione.

La stanza, con le sue superfici, diventa mezzo espressivo, il luogo del pensiero per chi legge e per chi ascolta, il luogo degli incontri e della vita, racconta la malinconia della lontananza dalla propria terra, lo spostamento, l’appartenenza.“E il muro in calcarenite, fatto di sedimenti, è memoria viva: non poteva esserci altro luogo del percorso del museo a cui affidare le parole scritte, disegnate e raccontate per immagini da Alavi” racconta Simona Spinella, curatrice del Museo.

A comporre il percorso di questa mostra sono un video e tre neon di Alavi, due dei quali versi estratti da testi come Where is the homeland? e Doesn’t it taste of blood, del 2020, una breve poesia diventata un grido d’appello, dipinto per le strade dell’Iran e dell’Afghanistan; il neon arancio, che recita “Alas that you are Faaaaaaaaar away”, è un detto hazara. I tre neon, attraverso la loro aura poetica, determinano una particolare atmosfera, suggestiva ed evocativa. Le opere luminose sono prodotte attraverso una tecnica artigianale: la luce è il veicolo perfetto e la duttilità della materia, con la sua capacità di trasformarsi in segni, lettere e forme, sembra essere il medium più adatto per esaltare la potenzialità comunicativa del segno calligrafico di una lingua antica: il farsi (lingua persiana).

La forza sta anche nella scelta dei colori, il celeste di Where is the homeland? è il colore delle selvagge acque del Mar Egeo, il rosso di Doesn’t it taste of blood e il brullo arancione di Alas that you are Faaaaaaaaar away ricordano il sapore del sangue, ma anche dell’amarezza della lontananza come racconta questa opera che, per Elyas, è il ritratto della separazione e Della distanza dalla sua famiglia. 

Nel trasferire il detto hazara in neon, Alavi moltiplica per nove la lettera a ad accentuare la distanza dalla sua terra. Affianca al neon due ritratti dei suoi parenti e le montagne del suo villaggio natale in Afghanistan, anche in questo caso a evidenziare una distanza incolmabile. È precisamente in quella nostalgia, in quell’“ahimé” spezzato, che si celano i semi per ri-costruire casa. 

Una voce femminile ha il compito di raccontare nel video I want to talk about happy things, man! i fatti dell’agosto 2021, accompagnando una serie di brevi filmati volutamente amatoriali: fugaci spezzoni e inquadrature mosse riescono a restituire le cicatrici che negli ultimi decenni la scacchiera geopolitica afghana ha inferto a un intero popolo.

Le opere di Alavi si determinano per mezzo di pratiche comunitarie collaborative. Per l’artista, le parole scritte a mano, di una poesia o di un detto, sono il veicolo per dare voce ad una comunità, diventano una dichiarazione che unisce coloro che hanno lasciato il Paese a chi ancora solca il suolo crivellato dell’Afghanistan. Con la propria voce e il proprio corpo,  esprime la propria condizione di rifugiato, artista e migrante Hazara in Australia.

L’inaugurazione si arricchisce di una performance poetico-musicale dell’artista, con il desiderio di proseguire la conversazione sulla pluralità di storie che provengono da questi Paesi.

Alavi decide di accompagnare il visitatore dentro lo spazio espositivo attraverso un viaggio performativo sulla Via della Seta, simbolo di connessione, scambio tra culture diverse, del legame tra l’Italia e l’Afghanistan. Un percorso tra gli spazi del museo in cui Alavi, con il sostegno delle sue poesie e dei suoi gesti, traccerà un nuovo sentiero sulla rotta tra l’Italia e l’estremo Oriente.

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