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“Da qualche tempo ho preferenza per temi e occasioni espositive in Italia. La progressiva dilatazione delle frontiere culturali, certamente utile alla conoscenza reciproca delle diverse esperienze è però un limite all’autentica corrispondenza di un’opera con la propria storia. Come se le pareti domestiche, l’intimità del proprio studio, persistessero al confronto con le latitudini troppo conosciute e omologate del nostro pianeta. Arte italiana dunque? Sì, anche se libera di frequentare infinite traiettorie, ovunque e da sempre nel Tempo e nella Storia. Qui allora echi e memorie di autori, lontani parenti di questa mia nuova stagione. Un petit-tour in una stanza: un mondo meno vasto ma più prezioso”.

Con queste parole Giulio Paolini introduce la sua settima mostra personale presso la Galleria Studio G7 ed inaugura la nuova stagione espositiva. L’ambiente della galleria ospita quattro opere inedite e alcune opere su carta che invitano lo spettatore a uno sguardo declinato secondo le diagonali dello spazio.

Al centro della sala è collocato Ultimo modello, un’intricata geometria di strutture in plexiglas che accoglie in ordine sparso molteplici frammenti di riproduzioni fotografiche: una sorta di “cantiere”, che attraverso tracce di opere precedenti e motivi caratteristici del repertorio iconografico dell’artista prelude a un’opera in fieri. Il titolo – ripreso da un lavoro del 1992, come indica la doppia datazione dell’opera – annuncia infatti qualcosa di inedito: in senso lato, annuncia quell’opera che l’autore cerca sempre da capo, credendo ogni volta di avvistarla tra echi del passato e indizi di un’apparizione ancora ignota.

Posta intorno ai quattro lati di Ultimo modello è l’opera L’Efebo, costituita da quattro calchi in gesso del busto di Efebo collocati su altrettante basi bianche. Come scrive Paolini: “La bellezza individuale, corporea, incarnata dalla figura maschile dell’Efebo, è colta in contemplazione dello spazio simbolico evocato da Ultimo modello in un confronto senza attenuanti tra l’una e l’altra verità”.

In Vertigo, il calco in gesso della Ebe di Antonio Canova è associato a un lungo drappo che ricade a terra, come a estendere la presenza della veste che adorna la figura femminile. Il tessuto reca impresso un cielo diurno animato da nuvole, in corrispondenza del quale sono posati una genesa crystal e una pietra di ametista, oggetti portatori di una spiritualità senza tempo. Paolini si appropria dell’immagine della dea Ebe – figlia di Zeus e di Era e coppiera degli Dei – in virtù del suo incedere con passo lieve, da danzatrice, immersa in un atteggiamento assorto, riverente e silenzioso. Dichiara l’artista: “La Ebe di Canova fugge e si sottrae al nostro sguardo: anche il cielo che la sovrasta sembra avvolgere il suo corpo e dar luogo a un’imminente e vertiginosa sparizione”. Il titolo Vertigo allude, appunto, alla posizione della figura che, posta di spalle in un angolo, si trova al limitare di una soglia nell’atto di inoltrarsi in una dimensione ignota, in bilico tra contingente e assoluto, tra dimensione terrena e ineffabile Bellezza.

Al capo opposto della diagonale su cui è collocata Vertigo si trova Estasi di San Sebastiano che ci riconduce all’ingresso dello spazio espositivo; la riproduzione del San Sebastiano di Lorenzo Costa è inscritta da una cornice dorata circolare, posizionata in maniera sfalsata sul passe-partout bianco; gli elementi sono disposti sopra una teca di plexiglas che inscrive una nebulosa. Il tutto è trafitto al centro da una matita nera, chiave di lettura dell’opera: per l’artista è lo strumento del “martirio” che lo induce a rinnovare sempre da capo il tentativo di stabilire un contatto estatico con una dimensione assoluta, rappresentata simbolicamente dall’immagine cosmica.

Tema primario della mostra è l’indagine sullo stesso atto di esporre, processo che si attiva e vivifica nel dialogo con le figure dell’antico, protagoniste e testimoni del compimento dell’opera in una dimensione ineffabile e assoluta.

La mostra è accompagnata da un testo di Marina Dacci.

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