Nel variegato e versatile discorso degli artisti sull’arte attraverso un linguaggio formale-estetico e sostanziale, il Novecento ha rappresentato un secolo nel quale si è privilegiato l’uomo e la sua raffigurazione e interpretazione, mentre la natura è riaffiorata come tema dominante soltanto in seguito e successivamente. Nelle tradizioni veristiche, naturalistiche e figurative, dietro la ricerca artistica e l’elaborazione dei linguaggi non poteva non esserci il tentativo di dare forma all’alterità che è in noi e che si riflette e si rispecchia nella natura intesa anche come habitat e contesto circostante in cui viviamo e abitiamo. Definire la posizione dell’uomo e dei suoi artifici è del resto un modo per collocarla anche nella natura, ossia nella dimensione del reale e della realtà.

“La natura è parti senza un tutto” dichiarava lo scrittore portoghese Pessoa. Sulla scia di queste riflessioni si può analizzare l’arte pittorica di Davide Romanò, anche partendo dalla sua inedita e inconsueta visione naturalistica estemporanea, che fuoriesce e si distacca dalle concezioni più tradizionaliste e si spinge verso un territorio autonomo composto e costituito da un progetto, che prevede la ridefinizione dello spazio e della prospettiva spaziale attraverso e partendo proprio dalla sua stessa fisicità, dal suo essere nel qui e ora del gesto e dell’atto creativo e proiettando dentro alle immagini una propria peculiare visione, che determina la formulazione di una nuova e innovativa mitologia naturalistica, frutto e derivazione della reinvenzione del rapporto tra l’immaginario personale e una possibilità di registrazione, di documentazione e di comunicazione oggettivante.

Questo processo così strutturato risulta molto qualificante e contraddistingue l’azione vibrante ed energica di Romanò. In questa proiezione l’opera si stacca dalla dimensione seriale e standardizzata, diventa affrancata e indipendente, si distacca dai cliché imposti e forzati, acquista una natura genetica connotativa e inizia la sua avventura esistenziale, proponendosi come eternamente contemporanea, pronta anche allo scorrere degli anni e al trascorrere del tempo. L’opera non si fossilizza e non si cristallizza, ma è destinata a una concatenazione evolutiva sempre aperta.

Grazia Marchianò ha scritto saggiamente e con lungimiranza di pensiero “non è l’uomo misura del Creato e culmine della scala dei viventi, ma è la Natura nel complesso a essere misura a se stessa, modello di un risveglio che per l’uomo invece è conquistato a fatica”.

Ecco come Romanò nella sua pittura cerca proprio di recuperare e di rivalutare una propria dimensione naturalistica e di compiere quei passaggi per arrivare ad un risveglio pieno e completo, che corrisponde ad un progresso e ad un avanzamento mentale effettivo e a un’evoluzione esistenziale autentica.

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