MATERIAL SELF
Dal 18 luglio al 21 settembre Centrale Fies presenta Material Self, mostra collettiva di natura performativa con Caroline Achaintre, Chiara Bersani, Benni Bosetto, Rehema Chachage, Julien Creuzet, Sonia Kacem, Sandra Mujinga a cura di Simone Frangi e Barbara Boninsegna, con la curatela esecutiva di Maria Chemello. Un programma performativo concepito come attivazione di alcune delle opere in mostra avrà luogo durante l’opening di giovedì 18 luglio.
Material Self è il secondo episodio di una serie di mostre collettive dedicate ai concetti formulati da Stacy Alaimo nella sua produzione teorica. Dopo il primo episodio del 2023, incentrato sulla nozione di naked word, la mostra pone quest’anno degli interrogativi sull’idea di material self con cui Alaimo teorizza, nel volume “Bodily Natures: Science, Environment, and the Material Self” del 2010, l’azione e il significato delle “forze materiali” e della loro interfaccia con i corpi umani. Tra le plurime domande poste da Alaimo, la nostra opera su due cruciali moniti: Cosa significa essere umani in questi tempi, con corpi che sono inestricabilmente interconnessi con il nostro mondo fisico? Come il corpo umano reagisce a forze materiali potenti e pervasive e registra i loro effetti sempre più dannosi? In linea con un pensiero femminista post-antropocentrico la mostra Material Self suggerisce, parafrasando Alaimo, che la “nuova” relazione tra corpi e la natura ha profondamente alterato il nostro senso del sé, creando un’inedita vicinanza del corpo umano all’ambiente e una rinnovata comprensione, di tipo relazionale, dei concetti di “casa”, “rifugio” e “abitare il mondo”.
Durante l’opening della mostra e l’inizio del weekend dedicato a Live Works Summit alcune delle artiste e artisti presenti nella collettiva “attiveranno” le rispettive opere in mostra, svelando al pubblico quali linee colleghino il loro lavoro performativo a quello dell’arte visiva.
Nella performance “Babau & Brouny”, Benni Bosetto ritrae un atto d’amore tra figure ibride e mostruose, riprendendo l’immaginario dalle antiche tradizioni folcloristiche pagane e carnevalesche attraverso la mimesi e un processo di tipo animistico eco-femminista. Due figure vagamente antropomorfe rivestite da elementi botanici si muovono nello spazio scambiando gesti di cura e affetto. Babau ripercorre criticamente la mitologica figura fiabesca europea dell’uomo nero, l’orco, il mostro, nucleo immaginario dalle caratteristiche indefinite. Uno strutturale animismo irriflessivo e inconsapevole che diventa strumento per offrire una differente visione della natura, sostenuto da un approccio all’amore di matrice interspecista.
Le opere di Rehema Chachage emergono da una pratica espansa, caratterizzata da una ricerca basata sui processi in cui sono coinvolte sua madre e sua nonna. Insieme, creano un “archivio performativo” che “colleziona” e “organizza” in modo non tradizionale storie, pratiche, rituali e altre tradizioni orali in diversi media.
Nell’opera dal titolo Nitakujengea Kinyumba, na Vikuta Vya Kupitia, Chachage si addentra nella complessità del fenomeno del radicamento, performando sulla scia di narrazioni e ricordi ereditati per via matrilineare. Al cuore della performance sono la natura transitoria del ricordo e le sue implicazioni politiche intrinsecamente fragili.
Pensando attraverso la narrativa speculativa della tradizione afrofuturista, Sandra Mujinga gioca con le tematiche del visibile e dell’invisibile. Sandra Mujinga è un’artista e musicista multidisciplinare, le sue opere negoziano le questioni dell’auto-rappresentazione e della conservazione, dell’apparenza e dell’opacità, attraverso una pratica interdisciplinare in cui spesso inverte le tradizionali politiche identitarie della presenza. Le tre sculture che compongono la sua opera Touch Face sembrano sorvegliare lo spazio. In piedi su due gambe, dalle fattezze umane, ma non completamente, sembrano dei corpi sovradimensionati o dei manichini. La loro fisiologia e il titolo sono ispirati dall’abitudine degli elefanti di toccarsi il viso con la proboscide, un movimento che non serve a uno scopo preciso se non a procurare all’animale una sensazione piacevole. Mujinga immagina alternative al visibile e propone l’invisibilità come strategia di sopravvivenza e strumento concettuale per osservare criticamente la nostra realtà politica. I volti delle sculture sono coperti da cappucci allungati, un capo di abbigliamento impiegato dalla polizia per il profiling razziale, ma recentemente diventato anche simbolo di protesta come segno politico per sollevare complesse questioni sociali e razziali, offrendo così una riflessione su come la visibilità possa essere utilizzata come arma.
Sonia Kacem concentra l’attenzione creativa sul concetto di ornamento all’interno dell’opera. Un elemento determinante del suo recente percorso è l’integrazione di articolati gesti calligrafici, che conferiscono alle sue opere un senso di fluidità e movimento. Questo approccio è particolarmente evidente nel formato litografico e nella pittura su ceramica.
Le forme accattivanti delle opere nascono dalle diverse esperienze che l’artista ha vissuto a Tunisi, Ginevra, Amsterdam, Bruxelles e Il Cairo. Ogni luogo contribuisce all’evoluzione di un linguaggio gestuale specifico, che attinge da schizzi e scarabocchi realizzati in questi svariati contesti. Muovendosi tra astrazione e ornamento attraverso il mezzo della litografia, queste opere si trasformano in un linguaggio visivo e tattile, invitando gli spettatori a esplorare l’intricato dialogo tra forma e gesto, tradizione e innovazione.
Julien Creuzet riflette, invece, sulle conseguenze dell’azione dell’uomo sull’ambiente. In un sapiente connubio di immagini e movimento, presenta il video dal titolo Mon corps carcasse (…): una collisione di suoni spezzettati e manipolati, sovrapposti a immagini d’archivio, oggetti animati in 3D e simboli. Ne emerge un vocabolario penetrante, carico di narrazioni dense che scaturiscono direttamente da una riflessione critica sull’inquinamento del suolo causato dall’uso massiccio del pesticida noto come clordecone. Estremamente tossico e cancerogeno, il clordecone è stato ampiamente utilizzato dal 1972 al 1993 in Martinica e Guadalupa da importanti industrie francesi e americane nella coltivazione di banane, nonostante durante lo stesso periodo il suo impiego fosse severamente vietato nella Francia continentale. Lo scandalo ha causato una catastrofe ambientale che ha contaminato fiumi, piante, animali e terreni, causando gravi problemi di salute alle popolazioni locali. È un lavoro tanto poetico quanto oggettivo, che rivela un legame inscindibile tra l’avvelenamento coloniale, i corpi e i territori.
Caroline Achaintre lavora utilizzando la lana con un approccio estremamente intuitivo e spontaneo, che conduce lo spettatore in una dimensione estetica ancestrale e al tempo stesso modernista. I personaggi creati dall’artista sono creature ibride che si nutrono di molteplici riferimenti iconografici, di ispirazione carnevalesca, pre-moderna e fantascientifica. In W.O.O.O.O.F., una grande maschera con le sembianze di un lupo, l’artista cattura lo sguardo dello spettatore, ponendosi come potente strumento di proiezione dell’individuo che osserva.
Deserters è un’installazione pensata da Chiara Bersani come un dispositivo multimediale e performativo composto da diverse parti in relazione tra loro. Oltre a costituire una nuova sfida per l’autrice, il tappeto, le parti sonore e soprattutto i disegni/oggetti realizzati per questa occasione, sono un modo per tenere fede al principio della prossimità in assenza dei corpi reali che definiscono la scena stessa. La performance messa in scena sul grande tappeto disegnato dall’artista non può esistere senza il tappeto stesso e senza l’ambiente sonoro che la accompagna. A questi elementi si aggiunge una serie di disegni, raffiguranti dei corpi non conformi, incastonati all’interno di superfici tessute appese alle pareti. Il titolo si rifà alle parole di Virginia Woolf nel saggio On Being Ill. L’invito dell’artista è quello ad abbandonare la posizione verticale, propria di una sedicente condizione di salute e conformità, per adottare una diversa prospettiva comune. Deserters mette al centro la questione della vulnerabilità intesa parimenti come dimensione soggettiva, identitaria, e come condizione corporea condivisa.
Deserters, che sarà inoltre “attivata” dall’artista il 26 luglio durante il weekend dedicato a Feminist Futures,espone l’incontro tra corpi disabili chiamati a lasciare un segno del proprio passaggio sul grande tappeto che li include e figurativamente li rappresenta. I gesti e i gemiti generati da questo incontro minano gli stereotipi legati alla sfera intima, identitaria e sessuale che colpiscono di frequente le persone con disabilità, attribuendo alla presenza del corpo sulla scena – il corpo vulnerabile in rappresentanza di tutti i corpi esistenti – una valenza politica.
L’opening di Material Self ha segnato inoltre il lancio della programmazione estiva di Centrale Fies che nel weekend del 19 – 21 luglio ha aperto l’annuale “summit” legato a Live Works – Free School of Performance. La collettiva, dal 22 luglio al 21 settembre sarà fruibile durante le due successive aperture estive e su appuntamento.
Centrale Fies riapre il weekend del 26 e 27 luglio con FEMINIST FUTURES, a cura di Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta. Il programma, creato all’interno di un importante network europeo, apap – advancing performing arts project, sperimenta e diffonde pratiche orizzontali e inclusive ispirate al pensiero del femminismo intersezionale con Adenike Oladosu, Aïsha Devi, Anne Lise Le Gac, Chiara Bersani, Crème Solaire, Erna Ómarsdóttir, Muna Mussie e Massimo Carozzi, No Plexus, Rifugio Amore, Sofia Jernberg, Zia Soares e Nina Ferrante.