Tra infinite altre conseguenze, la guerra tra Russia e Ucraina ha determinato anche una delle migrazioni intellettuali più importanti del nostro tempo: centinaia di migliaia di persone, la più parte giovani, hanno abbandonato la Federazione Russa. Tra loro centinaia di artisti, di ogni ambito espressivo. Per questo il Centro Studi sull’Arte Russa dell’Università Ca’ Foscari Venezia ha avviato nel febbraio scorso, in collaborazione con CYLAND e l’Accademia di Belle Arti di Venezia, un progetto scientifico internazionale: “Mapping Diaspora: arte russa in esilio”, con l’obiettivo di disegnare e aggiornare costantemente la mappa di ciò che quegli artisti hanno creato o stanno elaborando. La direzione scientifica del progetto, cui hanno aderito i maggiori specialisti di arte russa in Europa e negli USA, è di Silvia Burini e Olga Shishko. Articolato in diverse sezioni, prevede anche attività espositive, non solo a Venezia.
Sergey Kishchenko: Hortus Conclusus. Memoria, biodiversità, migrazione” è la prima di queste mostre e anche la prima personale in Italia di Sergey Kishchenko: riunisce in modo significativo una sequenza di lavori che appartengono a ricerche avviate negli ultimi dieci anni, che hanno conosciuto un’accelerazione dopo la decisione dell’artista di abbandonare la Russia e il suo arrivo in Italia, dove ha visto riconosciuto il suo status di rifugiato politico.
Per oltre mille anni l’hortus conclusus è stato l’emblema, in Oriente e in Occidente, di un rapporto di intima sinergia tra l’uomo e la natura. Il perimetro che lo delimitava favoriva la percezione di un luogo di protezione dai drammi della storia e di manifestazione di un ordine superiore. Oggi l’accenno è piuttosto sul conclusus: parla di un mondo divenuto globale, rinchiuso e diviso tra pareti insormontabili, che disprezza la varietà della natura, vegetale e animale, standardizza la diversità, costringe a dinamiche di migrazione per fuggire da guerre, carestie, futuri senza speranze.

Questo mondo rinchiuso rivela sempre più le fragilità della vita umana, le incertezze sul futuro della biodiversità, la crescente necessità di una protezione anche attraverso la condivisione della ricerca scientifica. Sergey Kishchenko sa declinare queste dinamiche generali del nostro tempo anche su un registro personale, intimo, mostrando la sua capacità di fondere insieme, in raffinate strategie di conservazione della memoria, la grande e le piccole storie, al cospetto di una natura che tutte le abbraccia.
La più parte delle opere scaturiscono da una originale riflessione sulla leggendaria vicenda dell’agronomo, botanico e genetista vegetale russo, Nikolaj Ivanovič Vavilov, di recente tornato all’attenzione di pubblico e critica grazie al volume di Peter Pringle, che dedicò tutta la sua vita a cercare di trovare una soluzione al problema della fame in Russia e nel resto del mondo, secondo criteri di giustizia, uguaglianza e futuro. Pioniere degli studi sulla biodiversità e sul patrimonio naturalistico e culturale di tutti i popoli della Terra, ha esplorato più di 60 Paesi, riscrivendo la mappa geografica di territori fino ad allora inesplorati. Ha avviato il grandioso progetto della prima Banca di Semi e Piante commestibili al mondo, eroicamente difesa dai suoi ricercatori, durante l’assedio di Leningrado, ed
esistente ancora oggi, nell’Istituto pansovietico di coltivazione delle piante, che dal 1967 porta il suo nome. Avversato dal regime staliniano, condannato a morte nel 1941, morì due anni più tardi per denutrizione nel carcere di Saratov.
Come ha notato Riccardo Caldura, Kishchenko «ripercorre le vicende dello scienziato, generando un affascinante, quanto rigoroso, percorso espositivo fra immagini, videoproiezioni, installazioni, richiamando non solo gli aspetti tragici della vicenda di Vavilov, da scienziato di livello assoluto a nemico del regime sotto Stalin, ma accennando anche alla più complessa tematica delle migrazioni provocate dalla penuria alimentare e dalle guerre. Nei nostri giorni, qui in terra, è la stessa esistenza dell’Hortus conclusus, immagine del paradiso, ad essere minacciata».
Nella prima sezione della mostra sono presenti opere che appartengono a due serie: nelle fotografie di Recipe book-Erbari di piante selvatiche l’artista associa a pagine scientifiche di erbari autentiche ricette di sopravvivenza con le piante selvatiche, fornite da detenuti o composte durante l’assedio di Leningrado, con istruzioni su come raccogliere e cucinare le piante selvatiche, usare la sansa, la farina e la colla di caseina come cibo. La serie Pane quotidiano è invece dedicata al salvataggio della collezione genetica raccolta da Nikolaj Vavilov. Sono dittici accostati. La parte sinistra è un documento, la fotografia di un erbario di cereali salvati durante l’assedio. Il lato destro è un’incisione che rispecchia il documento in uno strato di cenere: da un lato emblema delle infinite tragedie umane della storia del pianeta; dall’altro, nei nodi degli steli delle piante, metafora di destini umani spezzati, distrutti dalla repressione e dalla guerra. La sezione presenta anche l’installazione Banca genetica, in cui bottiglie mediche contenenti soluzioni invasive e sostituti del sangue sono riempite con semi di cereali, come nella collezione conservata all’istituto di Vavilov nel Kuban, per comunicare che «i chicchi di cereali sono il sangue per l’umanità», senza il quale l’umanità non può esistere.
La seconda tranche del percorso è costituita da 8 pezzi della serie Macchie, buchi e fili, che allude alle sezioni del cervello di Lenin. In URSS era stato fondato l’Institut Mozga per studiare quello del defunto e geniale leader. Gli scienziati internazionali che hanno studiato i dati disponibili sono spesso giunti alla conclusione che il cervello di Lenin mostrava caratteristiche tipiche dei malati di mente. Ma la serie riguarda e rappresenta soprattutto la soggettività della storia, evidenziando le macchie bianche e i buchi neri della conoscenza storica, rivelando fili invisibili che collegano eventi completamente estranei. Alle otto tecniche miste fanno coerente riscontro due video: il primo testimonia l’incendio che distrusse lo studio dell’artista a Mosca nel 2016; il secondo, Abiti bianchi, ricava il titolo da un’affermazione dell’Apocalisse di Giovanni ed è dedicato agli scienziati uccisi durante gli anni della dittatura staliniana.
Nell’ultimo tratto della mostra le immagini vegetali sin qui metaforicamente rappresentate sono incorporate in un’installazione: si tratta di materassi appartenuti a profughi e migranti, che Kishchenko ha rinvenuto nell’area di Malamocco, dove l’artista ha trovato rifugio e residenza. Con un puntuale rinvio alla tecnica di stampa giapponese Gyotaku, in una prospettiva di estetica “piatta”, essi diventano le proiezioni del mondo interiore e di tragedie personali, storie di persone senza volto. I rifugiati, sostiene l’artista, sono senza volto, così come le piante ci sembrano prive di intenzione e libero arbitrio, dato che una lunga
tradizione della metafisica occidentale le colloca in fondo alla catena dell’essere.
Due materassi sono collocati dietro lo schermo del video Bunker, sulle fortificazioni del Lido e di Pellestrina abbandonate dopo la Seconda Guerra Mondiale che esplicitamente ci invitano a riflettere sulla terribile e inevitabile vicinanza della guerra. Un altro materasso compare all’inizio del percorso, come epigrafe riassuntiva dell’intero percorso.

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