Inaugura il 28 marzo la mostra The Last Lamentation al Museo MAN di Nuoro, momento apicale del progetto artistico di Valentina Medda, a cura di Maria Paola Zedda, realizzato grazie al sostegno dell’Italian Council, programma di promozione internazionale dell’arte italiana della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura, frutto di una coproduzione che dalla Sardegna si dirama fino al Belgio, a New York e alla Slovenia e che vede capofila ZEIT, insieme al MAN Museo di Nuoro, Sardegna Teatro, Flux Factory, e VierNulVier.

The Last Lamentation è un rituale funebre per il Mediterraneo, osservato dall’artista come luogo di attesa, sospensione e trapasso, incarnazione di un’assenza – deposito di corpi e corpo in sé.   Valentina Medda lo attraversa nell’evocazione di un rito diffuso in tutta l’area che si affaccia sulle sue coste: il pianto rituale, indagato alla fine degli anni 50 dall’antropologo Ernesto De Martino, ora pressoché estinto nel Sud Italia, ma vivo nelle coste meridionali e orientali dal Libano al Marocco.  

La mostra si snoda intorno all’omonima opera video The Last Lamentation, prodotta tra il 2023 e il 2024, destinata alle collezioni del MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna: un lavoro girato in Sardegna e realizzato attraverso un percorso di ricerca nel territorio, che racconta la tragedia del mare attraverso un’ipnotica partitura coreografica, vocale, sonora. Il lavoro rielabora i codici rituali in forme contemporanee e astratte grazie alla collaborazione con Gaspare Sammartano, compositore, Claudia Ciceroni, compositrice e trainer vocalica, Attila Faravelli, per gli aspetti legati al field recording. Qui la relazione tra corpo, pathos, paesaggio si stratifica per sistemi di assenza e presenza attraverso la partecipazione di un coro di 12 donne vestite di nero, in piedi accanto al mare, elemento che per contrasto rende più tangibile la presenza silente dei morti e fa esplodere le loro voci.

La mostra raccoglie inoltre un corpus di opere, molte delle quali esposte per la prima volta, che l’artista ha realizzato già nelle prime fasi di studio e che convergono intorno all’opera video ripercorrendone i momenti di elaborazione: collage, inchiostri su carta, fotografie, disegni e alcuni elementi scultorei.

Dal 2018 Valentina Medda ha in atto una ricerca sul Mediterraneo, che inizialmente l’ha portata a lavorare a Beirut in residenza presso il Beirut Art Residency. Di questa esperienza troviamo tracce nei collage presenti in mostra, che compongono una tessitura che si annoda intorno a un territorio originario, la Sardegna – terra di provenienza dell’artista – per riconnettersi poi con il Mediterraneo. Insieme ai collage, l’evocazione dei fazzoletti che accompagnano il rituale del pianto ispirati dal documentario di Cecilia Mangini sulla tradizione pugliese, si cristallizzano nel processo di solidificazione attraverso la cottura della ceramica, che brucia l’anima del tessuto interno lasciando nella scultura un vuoto, un’assenza. A completare la restituzione della ricerca di Medda, un quaderno d’artista raccoglie visivamente le scene in uno storyboard poetico.  Immagini del mare e alcune polaroid lavorate come se questa acqua divenisse pelle, traducono un orizzonte visivo, che è liquido e corporeo insieme.

Il progetto è presentato da ZEIT, in partnership con MAN Museo d’Arte Provincia di Nuoro, Teatro di Sardegna, Arts Centre 404 / VierNulVier e Flux Factory in collaborazione con la Fondazione Sardegna Film Commission e sostenuto da ARS – Arte Condivisa in Sardegna per la Fondazione di Sardegna. I partner culturali sono Careof, BIG Bari International Gender Festival, RAMDOM, Sa Manifattura, Alchemilla.

L’artista è supportata dalla rete europea di larga scala Stronger Peripheries – A Southern Coalition grazie al sostegno di Teatro di Sardegna, Bunker Ljubljana, L’Arboreto Mondaino.

“Il lavoro è concepito come un rituale funebre per il mare” – dichiara l’artista Valentina Medda – “una performance partecipativa ispirata alla tradizione delle lamentazioni funebri in cui un gruppo di donne vestite di nero dà vita a un grido condiviso, un rito che guarda al coro come all’unico linguaggio possibile per raccontare una tragedia contemporanea. Nel piangere per il Mediterraneo e i suoi morti – continua l’artista – il tentativo è quello di ridare voce e corpo attraverso un’azione poetica e politica, a quelle vite considerate sacrificabili, quelle che non meritano nemmeno il lutto, come afferma la filosofa Judith Butler. Il mare è qui estensione del corpo, che perde i suoi confini e si fa liquido, creatura acquea.  La domanda su dove finisca il corpo e dove inizi lo spazio ha plasmato, di fatto, tutta la mia ricerca degli ultimi 10 anni, attraverso linguaggi diversi e in modi diversi, mettendo in discussione la distinzione tra la fisicità dell’individuo e la materialità esterna nel tentativo di creare una geografia incarnata e immaginare nuovi corpi ibridi, trovando il filo che lega tutte le materie vibranti, viventi e non”.

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